Imparare senza studiare

da Il genocidio invisibile di Silvano Agosti

Avviene quotidianamente un vero e proprio genocidio non tanto dei corpi quanto delle personalità di milioni, anzi miliardi di uomini, tenuti lontani da se stessi e dalla loro creatività e dal proprio vero destino, assediati come sono da falsi problemi, false culture, false superstizioni, false credenze, falsi progetti, false promesse.

E tutto ciò ad apparente beneficio di alcune migliaia di ultraricchi, ultrapotenti, ultraspietati esseri che, a loro volta, mal conoscono la preziosità e la vera grandezza della vita.

Prendiamo ad esempio l’istituzione scolastica.

Avverto subito che alcune delle riflessioni che andrò formulando richiedono, per essere giustamente comprese e assimilate, un ascolto specifico, affettuoso e definitivo.

Partiamo dunque, come premessa, dalla semplice constatazione che elementi naturali, indispensabili all’uomo per vivere possono, in diversa dose, provocare gravi danni o addirittura la morte.

L’acqua, ad esempio, l’essere umano lo disseta ma in dose eccessiva lo affoga.

Il fuoco lo scalda ma lo può anche bruciare, il cibo lo nutre, ma lo può soffocare. L’apparato percettivo sensoriale e cerebrale è capace di miracolose estensioni, alcune delle quali sono a tutt’oggi inesplorate, ma un tale miracoloso apparato si guasta se gli stimoli percettivi sono sempre gli stessi, se le azioni compiute sono eccessivamente ripetitive, come accade nell’ambito lavorativo o scolastico.

LE SCUOLE

Accade quindi che istituzioni nate per soccorrere l’uomo finiscano per danneggiarlo o addirittura sopprimerlo, o che l’infinito piacere di imparare venga sostituito dalla pratica poco amata dello “studiare”.

Imparare è pratica naturale di evoluzione e crescita della personalità e procura emozioni delicate e favorevoli, a volte perfino ineffabili.

“Studiare” ovvero inserire di forza nel proprio apparato percettivo una serie di concetti e nozioni non chiamate dal desiderio, si rivela invece a lungo andare una pratica perversa, capace solo di annullare qualsiasi reale desiderio di conoscere.

Ma l’imparare nasce dalla brezza del desiderio e offre una risposta voluta, accolta con gioia e con la partecipazione attiva di tutta la personalità.

“Studiare” per contro “costringe” una mente spesso riluttante, spesso estraniata, ad applicarsi a nozioni e dati che non suscitano il minimo interesse e che quasi sempre sono lontani dalle reali necessità della persona.

Per questo le scuole di ogni ordine e grado, pubbliche o private, tradizionali e sperimentali, a un attento esame delle loro strutture operative rivelano inquietanti analogie con gli istituti di pena e a volte perfino con i campi di sterminio.

La scritta “il lavoro rende l’uomo libero” di sinistra concezione nazista, posta all’ingresso dei campi annunciati all’inizio come “campi di rieducazione” e divenuti ben presto campi di sterminio, potrebbe dunque trovare un perfetto analogo nella scritta “lo studio rende l’uomo libero”.

Lo studio, nato per promuovere ed estendere la creatività e divenuto ben presto uno strumento capace di estirpare qualsiasi creatività e di demolire ogni desiderio naturale di apprendere.

Imparare, apprendere, ampliare le proprie conoscenze del mondo si rivela come uno dei massimi piaceri che la natura offre, mentre “studiare” è ormai divenuto un tormento permanente. Cercherò di esemplificare una distinzione fondamentale tra i due procedimenti.

Imparare corrisponde grosso modo al piacere di nutrirsi, magari scegliendo i cibi a seconda dei propri desideri, che poi assai spesso corrispondono alle necessità dell’organismo.

Studiare invece corrisponde a un “trattamento sanitario obbligatorio” come se qualcuno lo programmasse così: ore otto pane, ore 9 pasta, ore 10 carne, ore 11 verdure, ore dodici frutta. E così ogni giorno e, di fronte a tentativi legittimi di disperazione o di ribellione della vittima di turno, l’”ingozzatore” non senza innocente cinismo enunciasse la sua verità: “Guarda che se non ti nutri muori”. Un'evidente analogia accade nel nutrire spietata osservanza “dei programmi”.

Sì, i ragazzi a scuola si annoiano, fingono di ascoltare, sono sempre meno capaci di esprimere una loro visione del mondo, ma “il programma è stato rispettato e ultimato”. Pian piano si è praticamente estinto ogni naturale desiderio di sapere, e smarrito per sempre il piacere di “conoscere”.

LA TRAGEDIA DELLE CILIEGE TRIANGOLARI

Il fatto è che l’essere umano, intorno ai cinque anni di età, si presenta come la miniatura di un universo perfetto: chiede il perché di tutto, tocca tutto, si offre a tutti, esplora incessantemente il mondo che lo circonda, si muove senza sosta, gioca, canta, si difende, si dispera fino a ottenere ciò che vuole e i suoi stessi comportamenti sono un’arte, in quanto coincidono perfettamente con ciò che sente e prova e afferma e nega.

Poi questo capolavoro vivente (qualsiasi sia la sua origine) approda nello spazio scolastico e viene immediatamente sottoposto a secche restrizioni: lo obbligano a star seduto, non può esprimersi o intervenire se non quando “tocca a lui” e, quando chino sul foglio si abbandona con gioia alla propria creatività e disegna ciuffi di ciliegie di forma triangolare di un delicato color rosa, implacabilmente “la maestra” fa notare che: “No piccolo mio, stai più attento, le ciliege non sono triangolari, sono rotonde.” La grande mano della maestra imprigiona la manina smarrita e la obbliga a correggere i triangoli in altrettanti cerchi. “Così… così… E poi non sono rosa, sono rosse. Le ciliege sono rosse!”

E da quell’istante ha inizio il percorso della sfiducia in se stessi, indispensabile per sottomettere un essere umano e fargli credere sia ineluttabile negare a se stesso il tempo del gioco e della vita. Quando la sua sottomissione alla fine dell’esperienza scolastica sarà tale da subire con tremore e ossequio la tortura di esami insensati e vessatori, in cambio riceverà il diploma. Maturo.

Maturo a sottomettersi per tutta la vita a un lavoro di otto o dieci ore al giorno, insomma un ergastolo vestito da “necessità sociale”.

Così, di anno in anno, di programma in programma, il genocidio si compie, facendo nascere nei giovani una legittima repulsione per qualsiasi cibo culturale che non sia la frivola, superficiale lista di scempiaggini da fast food culturale dei giornali sportivi o scandalistici, la pornografia, i film industriali, le soap opera, gli inviti lusinghieri a tentare la fortuna al lotto o al gratta e vinci, la cultura sciatta e triviale della tifoseria nel calcio, la bassa qualità del diverbio politico tra i partiti.

La libertà di imparare invece condurrebbe ad una armonica crescita dell’infanzia all’interno di una personalità sempre più sicura di sé, capace di costruirsi un proprio destino, senza alcuna traccia di sottomissione o di dipendenza.

“Cosa proponi dunque come alternativa a proposito della scuola?”

“Mi piacerebbe che alle scuole accadesse quello che giustamente è accaduto ai manicomi. E cioè che tutte le scuole venissero chiuse. Messe fuorilegge. E che ci fossero dei Centri di Salute Culturale (così come invece dei manicomi ci sono dei Centri di Igiene Mentale) nei quali i bambini, i ragazzi e i giovani andrebbero, spinti dalla necessità di imparare, trovando operatori culturali in grado di fornire loro le informazioni giuste sui vari meccanismi di apprendimento, libri, cinema, computer, sull’uso di biblioteche, di nastroteche per accedere ai massimi capolavori dell’arte e così via… Dei laboratori, insomma. Spazi di incontro da frequentare soprattutto in caso di pioggia. Un buon computer costa mille volte meno di un insegnante e “sa” mille volte di più. Inoltre, una volta liberate le strade cittadine dalle automobili con efficienti installazioni di marciapiedi mobili e una volta liberati gli esseri umani dall’obbligo di lavorare più di tre ore al giorno, ognuno diverrebbe insegnante di ciascuno. E allora ogni essere umano sarebbe tanto “essere umano” quanto ogni gatto è stupendamente “Gatto”.

Ma dove si andrebbe a finire se tutti gli esseri umani coincidessero con se stessi? Cosa potrebbero fare nel tempo che ora li occupa a lavorare?

Va detto che, a chiunque io abbia fatto questo discorso, la classica opposizione è la seguente: “Certo, lo so che sono prigioniero di una serie di gabbie invisibili, il lavoro obbligatorio, la famiglia subita perché mal frequentata, il desiderio di denaro come frutto di una perenne indigenza etc… Ma tutto ciò mi dà almeno una certa sicurezza. Cosa farei se fossi libero?”

È proprio l’impossibilità di concepire la libertà che rende l’uomo schiavo. Essere riusciti a togliergli la possibilità perfino di immaginare una vita vissuta nella libertà lo rende perfettamente sottomesso, uno schiavo moderno.


Silvano Agosti <www.silvanoagosti.com>

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