Lettera a Giuseppe

San Giuseppe appartiene alla famiglia di quei piccoli del Vangelo, umili e discreti, che non occupano molto spazio, si muovono con leggerezza, sono creature che, mentre vivono nell'ombra, esprimono una luce interiore che rende meravigliosa la loro presenza.


Caro San Giuseppe, scusami se approfitto della tua ospitalità e, con una audacia al limite della discrezione, mi fermo per una mezz’oretta nella tua bottega di falegname per scambiare quattro chiacchiere con te. Tu continua pure a piallare il tuo legno, mentre io, seduto su una panca, in mezzo ai trucioli che profumano di resine, ti affido le mie confidenze…

Mio caro San Giuseppe, sono venuto qui per conoscerti meglio come sposo di Maria, come padre di Gesù e come capo di una famiglia per la quale hai consacrato tutta la tua vita. E ti dico che la formula di condivisione espressa da te come marito di una vergine, la trama di gratuità realizzata come padre del Cristo e lo stile di servizio messo in atto come responsabile della tua casa, mi hanno da sempre incuriosito, e mi piacerebbe capire in che misura questi paradigmi comportamentali siano trasferibili nella nostra “civiltà”. Attraverso l’uscio socchiuso, scorgo di là Maria intenta a ricamare un panno bellissimo, senza cuciture, tessuto tutto d’un pezzo da cima a fondo. Probabilmente è la tunica di Gesù per quando sarà grande.

Quando tuo figlio indosserà quella tunica, lui, l’eterno, si sentirà le spalle amorosamente protette dal fragile tempo di sua Madre. Dimmi, Giuseppe, quand’è che hai conosciuto Maria? Forse un mattino di primavera, mentre tornava dalla fontana del villaggio con l’anfora sul capo? O forse un giorno di sabato, mentre con le fanciulle di Nazareth conversava in disparte sotto l’arco della sinago­ga? …

Ti ha parlato di Jahvé. Di un angelo del Signore. Di un mistero nascosto nei secoli e ora nascosto nel suo grembo. Di un progetto più grande dell’universo e più alto del firmamento che vi sovrastava. Fu allora che le dicesti tremando: «Per te, rinuncio volentieri ai miei piani. Voglio condividere i tuoi, Maria. Purché mi faccia stare con te». Lei ti rispose di sì, e tu le sfiorasti il grembo con una carezza: era la tua prima benedizione sulla Chiesa nascente. Hai avuto più coraggio tu a condividere il progetto di Maria, di quanto ne abbia avuto lei a condivi­dere il progetto del Signore. Lei ha puntato tutto sull’onnipotenza del Creatore.

Tu hai scommesso tutto sulla fragilità di una crea­tura. Lei ha avuto più fede, ma tu hai avuto più speranza. La carità ha fatto il resto, in te e in lei. Non hai chiesto nulla per te; non per orgoglio ma per sovraccarico d’amore. Ora Giuseppe... sta arrivando una donna dal forno. Ecco, ti ha portato del pane, e la bottega si è subito riempita di fragranza…

Si direbbe che il pane, più che nutrire, è nato per essere condiviso. Con gli amici, con i poveri, con i pellegrini, con gli ospiti di passaggio. Spezzato sulla tavola, cementa la comunione dei commensali. Deposto nel fondo di una bisaccia, riconcilia il viandante con la vita. Offerto in elemosina al mendico, gli regala un’esperienza, sia pur fugace, di fraternità. Donato a chi bussa di notte nel bisogno, oltre a quella dello stomaco, placa anche la fame dello spirito che è fame di solidarietà.

Un giorno anche tuo figlio lo spezzerà, prima di morire e la speranza traboccherà sulla terra. Spezza anche per me un po’ di quel pane. Dopo il pane, ecco ti portano il vino. Un giorno tuo figlio lo farà scorrere sulle mense dei poveri e sceglierà il succo della vite come sacramento del sabato eterno. Dammene un po’ e dammi anche un po’ d’acqua pura della fonte. Quando tuo figlio la userà per lavare i piedi ai suoi amici, diverrà il simbolo di un servizio d’amore, spiegazione segreta della condivisione, della gratuità, della festa.

Caro San Giuseppe, il mio incontenibile bisogno di senso ha trovato rifugio e risposte presso di te. Gli echi di questa ricerca di autenticità ancora si diffondono nel nostro tempo. E – ne siamo certi – continuano a giungere fino a te.



Si è fatto tardi, Giuseppe. Nella piazza non c'è più nessuno. I grilli cantano sul cedro del tuo giardino. Nelle case, le famiglie recitano lo Shemà Israel. E tra poco Nazareth si addormenterà sotto la luna. Di là, vicino al fuoco, la cena è pronta. Cena di povera gente. L'acqua della fonte, il pane di giornata, e il vino di Engaddi. E poi c'è Maria che ti aspetta. Ti prego: quando entri da lei, sfiorala con un bacio. Falle una carezza pure per me. E dille che anch'io le voglio bene. Da morire. Buona notte, Giuseppe!


Don Tonino Bello - La carezza di Dio. Lettera a Giuseppe

Commenti

Evergreen ha detto…
Testo bellissimo e ispirato di un grande vescovo. Te lo rubo e me lo regalo su FB per il mio onomastoco (sperando che non ti dispiaccia!).
Aliza ha detto…
ottima scelta, l'ho letta con molto piacere, grazie. Ciao

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